Molto noiosa in effetti: se ne sta sottoterra la maggior parte del tempo fino a che, per spezzare la routine, dopo qualche centinaio di milioni di anni emette una particella alfa e si trasforma in torio. In alternativa, può essere dissotterrato dall’uomo ed affrontare un percorso un pochino più eccitante.
L’uranio è presente nella crosta terrestre in quantità superiori allo stagno, all’argento e al piombo con concentrazioni medie di 2,7 parti per milione. È distribuito in maniera uniforme e infatti lo si può trovare in grandi quantità in: Australia, Canada, Kazakistan, Nigeria, Russia, Cina ed USA. Come tutti i metalli lo si trova sotto forma di ossidi o di silicati, spesso in presenza di altri elementi come il torio, il titanio e il potassio, localizzati in giacimenti superficiali oppure sotterranei. I primi sono facilmente sfruttabili ed economicamente competitivi, i secondi invece richiedono concentrazioni di uranio molto più elevate per poter essere utilizzati visto che spesso è necessario lavorare a più di 100 metri di profondità.
Se si considerano le risorse ragionevolmente sicure e quelle stimate abbiamo a disposizione più di 18 milioni di tonnellate di uranio (il consumo annuale è di settantamila) e questo senza considerare la quantità presente nel mare che ammonta a 4 miliardi di tonnellate.
Il minerale estratto dalla miniera contiene molte impurità e quindi deve essere trattato con un acido forte (e.g. acido solforico), o con una soluzione alcalina (e.g. carbonato di calcio) a seconda delle impurezze da eliminare. La soluzione ottenuta subisce un processo di lisciviazione nel quale viene filtrata e per precipitazione si ricava una sostanza molto famosa e chiamata in gergo “yellow cake” (vedere foto sotto).
Abbiamo trasformato l’uranio in una torta gialla! Il nome corretto sarebbe octossido di triuranio (U3O8) e la composizione isotopica è la seguente: domina l’U-238 con il 99,28%, poi c’è l’U-235 con un misero 0,71% e infine l’U-234 con un rilevantissimo 0,0057%.
La yellow cake non può essere utilizzata direttamente come combustibile, perché la percentuale dell’isotopo 235 è troppo bassa: nella maggior parte dei reattori è richiesto il 2-5% di isotopo fissile (fanno eccezione i reattori ad acqua pesante, di cui parleremo in futuro).
Il processo che permette di aumentare la percentuale di 235-U è noto come arricchimento. Ma come funziona? L’isotopo 235 e il 238 sono per definizione chimicamente uguali, e l’unica cosa che li differenzia è la massa: il 238 è più “pesante”. Per sfruttare questa differenza si rende gassosa la yellow cake facendola reagire con l’idrogeno e con l’acido fluoridrico, ottenendo l’esafloruro di uranio, UF6. Si lega l’uranio al fluoro perché quest’ultimo ha un solo isotopo stabile, il F-19, e quindi l’unica differenza in termini di massa tra una molecola di UF6 e un’altra è legata agli isotopi 235 e 238 dell’uranio.
Le reazioni chimiche usate per ottenere l’esafloruro a partire dall’octossido di triuranio sono le seguenti:
U3O8 + 2H2 ⟶ 3UO2 + 2H2O
UO2 + 4HF ⟶ UF4 + 2H2O
UF4 + F2 ⟶ UF6
Come lo arricchiamo questo UF6? Esistono vari metodi.
Il primo di essi è la diffusione gassosa, e si basa su un concetto poco intuitivo: in un gas in equilibrio, tutte le molecole hanno in media la stessa energia cinetica, la cui formula è E = ½ mv2.
Se E rimane dunque costante, ma la massa diminuisce, la velocità dovrà aumentare per compensare.
L’idea è di tenere questo gas in una camera stagna divisa in due da una membrana porosa, ponendo una differenza di pressione adatta tra le due sezioni. Le molecole di esafluoruro di U-235, essendo più leggere e dunque avendo una velocità leggermente maggiore, in media sbatteranno contro questa membrana più spesso, e questo fenomeno rende leggermente più probabile il passaggio al lato con pressione minore rispetto alle altre molecole più pesanti.
Ora però vengono fuori i problemi: siccome in ogni stadio ci deve essere una differenza di pressione tra le due camere, il gas andrà prima compresso, ma comprimendosi si scalderà e dovrà essere raffreddato. Quindi ogni stadio comprenderà sia un compressore che uno scambiatore di calore, oltre al diffusore.
In aggiunta, la separazione è così poco efficace che servono tantissimi stadi di separazione in serie per raggiungere arricchimenti sufficienti.
Tutto ciò rende questo processo estremamente energivoro: un impianto di arricchimento in grado di produrre sulle 2400 tonnellate all’anno di uranio arricchito al 3,2% (sufficienti a ricaricare circa 86 PWR da 1 GW) ha bisogno di una potenza di 2,7 GW per funzionare, l’output di quasi tre reattori nucleari.
In alternativa si possono usare le centrifughe a gas, che sono la tecnologia a cui si ricorre maggiormente oggi. Il concetto è semplice: si fa passare il l’UF6 attraverso tante centrifughe messe in serie; grazie alla forza centrifuga, l’isotopo più pesante viene spinto verso il bordo dell’apparato, mentre quello più leggero rimane al centro e può essere raccolto. Dopo molti passaggi si ottiene il grado di arricchimento desiderato. Questo metodo è meno costoso di quello a diffusione gassosa e consuma solo lo 0,4% dell’energia contenuta nel combustibile. D’altra parte, facendo passare di continuo il gas nelle centrifughe, si può ottenere qualsiasi grado di arricchimento, anche quello adatto a fare una bomba (cioè superiore al 90%). Questo è il motivo per cui oggi, se si vuole impedire ad un Paese di dotarsi di ordigni nucleari, è sufficiente proibirgli di usare tecniche di arricchimento (sì Iran, stiamo pensando proprio a te).
Un altro metodo, relativamente semplice e simile alla centrifugazione gassosa, è la separazione mediante processi aerodinamici. Tante varianti sono state sviluppate ma tutte seguono lo stesso principio: il gas viene fatto passare a velocità elevatissima attraverso una curva con un raggio molto piccolo, così l’accelerazione provoca un gradiente di pressione che tende a mantenere la componente più leggera verso il centro. In questo modo i due flussi possono venire separati da un divisore e portati agli stadi successivi.
Esistono però delle tecniche più futuristiche che si basano su principi fisici ancora diversi, come ad esempio la Laser isotope separation.
Un laser, per chi non lo sapesse, è semplicemente un fascio di luce molto intensa con una lunghezza d’onda molto definita.
Prima ho detto che due isotopi sono chimicamente identici, ma in realtà non sono del tutto indistinguibili: infatti, tra i livelli energetici dell’uranio 235 e 238 ci sono delle piccolissime differenze (parliamo della cosiddetta “struttura iperfine”). Sfruttando queste differenze, si può fare in modo che un fascio laser monocromatico ecciti solo uno dei due isotopi, lasciando l’altro nel suo stato fondamentale.
Il setup consiste quindi nell’irradiare con questo laser del vapore di uranio (metallico o in molecola), e sfruttare questa prima eccitazione per indurne altre, utilizzando altri laser di lunghezza d’onda approriata. In questo modo, scalando i livelli energetici, si può arrivare a ionizzare selettivamente l’uranio 235, e a quel punto è semplicissimo separarlo dal resto attraverso un semplice campo elettrico.
Purtroppo, non c’è modo di impedire al resto del vapore di depositarsi sul collettore, quindi una separazione isotopica perfetta non è possibile.
Questo tipo di tecnologia ha la potenzialità di funzionare consumando un decimo di un impianto equivalente a diffusione gassosa, ed è in grado di arricchire con successo persino l’uranio impoverito di scarto di altri processi (partendo da una percentuale di fissile dello 0,2% e ottenendo uno scarto con percentuale di fissile allo 0,08%).
Tuttavia, lo stesso fatto che sia così efficace, è qualcosa che ha fatto inarcare molte sopracciglia, in quanto permetterebbe con relativa facilità di raggiungere arricchimenti weapon grade.
Una volta che l’uranio è stato arricchito, lo si fa tornare a diossido di uranio (UO2) e tramite un processo di compressione e sinterizzazione (riscaldamento a più di 1700°C) gli si dà la tipica forma cilindrica. Le pastiglie sono di colore nero, con altezza e diametro di un centimetro e finalmente sono pronte per essere inserite dentro ad un reattore.
In conclusione, possiamo dire che abbiamo movimentato parecchio la noiosa vita dell’uranio, ma considerando che quella pastiglia fornisce la stessa energia di quattro quintali di carbone senza emettere un grammo di sostanze inquinanti e climalteranti direi che ne è valsa la pena.
– Fulvio e Leonardo.
Per approfondimenti:
https://www.world-nuclear.org/…/world-uranium-mining…
https://www.world-nuclear.org/…/how-is-uranium-made…